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Il più odiato dai fascisti

Riprendo la definizione di “cultura di destra” che Jesi diede nel 1979 a «L’espresso» in occasione dell’uscita di Cultura di destra, un libro che ebbe una certa notorietà. E’ la cultura in cui «il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare […] nel modo più utile, […] in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari», in cui «esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola». “Di destra” è ogni discorso che abbia forma assertiva indiscutibile, cioè autoritaria e quindi “mitica”: è soprattutto il linguaggio di «parole spiritualizzate» elaborato dalla destra tradizionale, fascista e neofascista, con le iniziali maiuscole (Tradizione, Razza, Patria, Famiglia, Sangue, Terra…) ma è anche il linguaggio del «sinistrese […] più dinamitardo» dei comunicati delle Brigate Rosse o la celebrazione del Risorgimento e della Resistenza quando si fa discorso basato sulla mistica del sacrificio e del martirio. Tutto questo sono le ‘idee senza parole’: retoriche del sublime, monumentali e celebrative che legittimano la sfera politica riferendosi al passato e imitando il linguaggio del sacro. Alludono e non spiegano nulla. Sono forme verbali dell’azione, gestuali e rituali per le quali in termini di filosofia del linguaggio Austin ha parlato di funzione perlocutiva, producono effetti pragmatici in chi le condivide.
Per Jesi, «la maggior parte del patrimonio culturale […] è residuo culturale di destra». La destra non è che l’estrema propaggine di un linguaggio aristocratico e alto-borghese che ha trovato la propria codificazione a partire dal tardo Settecento, nel momento in cui gli elementi delle culture nazionali sono emersi con forza e hanno elaborato una metafisica che trovava nel mito una voce dell’essere.

Enrico Manera

Da: Conversazione su Furio Jesi, il mito, la destra e la sinistra
Per approfondire consigliamo il dossier “Cultura di Destra” su Doppiozero